We shall overcome – I sogni perduti di una generazione –

Era forse nell’anno 1971. Con un gruppo di amici della parrocchia di Settimello (Firenze) stavamo salendo, di prima mattina, verso il monte Morello, che domina la piana di Sesto Fiorentino. Il sentiero saliva piacevole nel bosco di pini e cipressi, nell’ombra si spandeva l’odore di resina e il silenzio era rotto solo dal frullare degli abitanti degli alberi e dalle chiacchiere leggere di noi, non ancora ventenni.  Ad un certo punto la Carla mi fa: “Ti canto una canzone”. E ha iniziato a cantare.  Così, salendo verso il monte, ho conosciuto We shall overcome.

Da allora ha attraversato spesso la mia vita, sembrava una canzone giovane come giovani erano secondo me coloro che la cantavano nelle marce per i diritti civili, o più semplicemente come coloro che, più o meno convinti, lontani da cortei dove si rischiava una carica della polizia, in qualche salotto reso libero dai genitori, o in qualche parco cittadino, cantavano  We shall overcome .

Non ho mai trovato una traduzione che mi soddisfacesse, per questa canzone.  we shall overcome,  tradotto  noi  vinceremo, supereremo,  non mi piace. Preferisco pensare, anche se è impossibile usarlo come testo alternativo in italiano,  “noi ce la faremo, alla fine”.

Ecco il testo:

We shall overcome,
We shall overcome,
We shall overcome, some day.

Oh, deep in my heart,
I do believe
We shall overcome, some day.

We’ll walk hand in hand,
We’ll walk hand in hand,
We’ll walk hand in hand, some day.

Oh, deep in my heart,…..

We shall live in peace,
We shall live in peace,
We shall live in peace, some day.

Oh, deep in my heart,……

We shall all be free,
We shall all be free,
We shall all be free, some day.

Oh, deep in my heart,…..

Ci sembrava un bel sogno, allora, camminare la mano nella mano, poter vivere in pace, essere finalmente liberi….

Perché camminando mano nella mano ci sentiamo più’ forti, e sappiamo che “la mia sorte è la tua sorte”, e saremo insieme fino in fondo, e il tuo problema, adesso, diventa il nostro problema, e ci batteremo insieme per questo.  “I care”, si diceva. Ma adesso, alle richieste di aiuto, si risponde se va bene con un’alzata di spalle, forse perché ci siamo convinti che, vinta una battaglia, non ci sarebbe stata più’ nessuna guerra da combattere per essere finalmente tutti liberi e in pace….”bomba libera tutti”….

Forse quello che ci serve davvero è l’ultima strofa di questa versione:

We are not afraid,
We are not afraid,
We are not afraid, TODAY

Oh, deep in my heart,……

We shall overcome,
We shall overcome,
We shall overcome, some day.

Oh, deep in my heart,
I do believe
We shall overcome, some day.

Non abbiamo paura, dice. E forse è proprio la paura che ci frega, che ci blocca. Forse non abbiamo capito che noi siamo GIÀ’ in pace,

GIÀ’ liberi, che davvero la paura è sconfitta  GIÀ’ adesso, che alla fine, si, alla fine, ce la faremo. I sogni non basta sognarli una volta, ma occorre riportarli alla mente ogni attimo della vita, e fissarli bene nella mente, e continuare a perseguirli anche quando ci appaiono ormai superati, obsoleti.

I sogni, a volte, sono la volontà di Dio per noi. Ricordo di aver letto, un  bel po’ di tempo fa, di un giovane pastore, appena arrivato in una parrocchia.

Riunì un giorno tutti i parrocchiani e pose loro questa domanda: “Che cosa ne pensate di Dio? Chi è Lui veramente?”  Il dibattito si alzò subito, ognuno diceva la sua, e il giovane pastore lasciò che tutti parlassero, finché nessuno ebbe più niente da dire. Allora si alzò e disse: “Tutto ciò che avete detto in questa mezz’ora, tutte le vostre parole e il tempo usato per pensarle e per dirle, non ha nessun valore. Ciò che è importante, però, che ciascuno di voi sappia con certezza, è solo questo: COSA DIO PENSA DI ME?Chi sono io secondo lui? “

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Un attimo prima.

Io non lo so se vi è mai capitato… di sentire davanti come un confine, una linea immaginaria ma non per questo meno forte, meno determinata, una linea verso la quale siamo spinti, e che fugge da noi alla stessa nostra velocità, tanto che dubitiamo che esista, che sia reale, e non, piuttosto, frutto dei nostri sogni, delle nostre paure, o dei nostri desideri.

Ci stavo pensando ieri, che sono tornato al paesello a far visita ai vivi e ai morti, accomunati tutti dalla distanza da riempire…. in tutto, deviazioni comprese, circa 4 ore in macchina da solo, a sentire musica, a cantare, a sentire e ripassare lezioni di gospel, e non ultimo una bella chiacchierata col coach, col quale mi era rimasto un discorso in sospeso…

Beh, insomma, non so se avete in mente com’è la collina, o la montagna, alla fine dell’inverno. Perde la durezza della stagione fredda, del gelo, e i rami, seppur stecchiti ancora, hanno un che di gentile, di dolce, che non è più rassegnato, ma fiducioso, tranquillo. I colori caldi delle tonalità brune la fanno da padrone, i fianchi delle colline sembrano coperte non da boschi, ma da un morbido tappeto, una moquette uniforme, e verrebbe la voglia di accarezzarli, e continuare a sognare.

Anche le montagne, nella luce della sera, appaiono meno altere, e quasi più reali del solito. Sulle creste più alte ancora la neve, come in una clessidra, si scioglie in mille rivoli che ripetono continuamente la loro canzone:

“Liberi, liberi dal crudo gelo

scendiamo a valle lieti, cantando.

Senti, ascolta, impara

e canta con noi questa canzone.

Per tutti viene il tempo

del sole e della luce,

della forza e delle pazze corse.

Aspetta, viene il tempo,

e non si fa arrestare

da un orologio rotto.

Dopo la notte viene il giorno

passerà da qui l’ombra e verrà il sole.

Che tu sia goccia o ruscello,

o fiume, lago, mare,

non è per sempre il gelo.”

E’ un’aria strana, quella che si respira, o forse sono i miei occhi e la mia mente che pensano ai fianchi verdi dei monti, all’erba nuova nei campi. Aspetto. Il tempo passerà

Due parole


Sento spesso che mi manca qualcosa (insomma, qualcosa un bel tocco di qualcosa), e questo al di la dell’essere felice o no. Manca quel senso di completezza, di realizzazione, quel dimenticare i rimorsi e i rimpianti che si accumulano nella vita.
Il fatto è che lo so benissimo: io son questo, e non altro. Uno zibandone di pregi e di difetti, di paura e di coraggio, di vittoria e di sconfitta, di gioia e tristezza. Se ci mettiamo anche il rapporto con Dio la cosa si fa ancora più complicata, perchè ti senti sempre in debito, mai in pari, e il peccato a volte pesa addosso in maniera intollerabile. Allora le giornate si tingono di scuro; non di nero, che ha un suo fascino, ma di scuro, di chiuso, di triste, di inutile.
Allora poche cose hanno un senso, niente ha il sapore che conoscevi e se cammini, in qualunque direzione tu lo faccia, il vento ce l’hai sempre contro.

Eppure un modo ci dev’essere per uscirne, eppure anche per me deve esistere il sereno sopra le nuvole, il sole dietro le colline, il mare libero dopo la scogliera, il prato dopo la macchia fitta di rovi.

Eppure… lo so, perchè è già successo, che tutto può cambiare in un istante. Io che ero il rifiuto, lo scarto, mi sono sentito al centro della Sua attenzione. Al centro. E ogni cosa mi parlava di Lui, e mi incoraggiava, e mi sosteneva. Mi ricordava, ogni attimo, che io sono importante, che valgo la Sua vita. In una notte mi ha sconvolto completamente, dicevo allora “rovesciato come un calzino”.Nuovo di pacca. E’ in quei momenti che comprendi il senso di parole come “misericordia”, “pace”… e quante cose….
Ma poi la buona pianta si lascia lì ad ingiallire, l’attenzione diminuisce, lo sguardo si abbasssa, torna a guardare basso basso….
E sei punto e a capo. Tutto da rifare. Immondizia da portare via, vetri da pulire, mobili da spolverare…. tu, Tempio di Dio, orgoglioso di esserlo, sei di nuovo ridotto come una discarica. E tanto più pesa, in quanto conosci la differenza, e la senti come una distanza che va aumentando sempre più.
Allora, improvvise, casuali, arrivano due parole. Due parole che sai di poter dire, di poter osare. Te le hanno portate in dono giusto due sere fa, e un attimo prima erano il testo di una canzone, adesso sono la tua preghiera, il tuo struggimento, la tua speranza. Due parole, una preghiera:
“Touch me”: Toccami

touch me

touch me
touch me
touch me
Lord touch me

I know I’m not much
I feel so unworthy

I’ll never be much
Until the hand of god touches me

I’ve been praying
I’ve been praying that the Lord would touch me.

Molti hanno rivolto questa preghiera al Signore, e sono stati ascoltati.
“Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto…. se non altro per la vostra insistenza”

1991

Mi hai detto che verrai. E adesso aspetto quel momento, e sembra quasi che attenderti riempia del tutto il mio tempo, occupi del tutto i miei pensieri.
Verrai. Ho fiducia in te. E comincio a pensare a dove ci incontreremo, e se ti riconoscerò, e come sarà la tua voce, e come sarai vestito.
Manca ancora un mese al tuo arrivo, ma intanto ho saputo a quale stazione arriverai. Vado a vedere, vado a pensare come sarà. Salgo le scale, e penso che le scenderò con te tra un mese, penso che staremo già chiacchierando come vecchi amici, magari di questi giorni di confusione, di attesa, di timore. Vado a guardare i binari. Arriverà qui il tuo treno, alle sedici di una domenica tra quattro settimane. Arriverà. Sentirò l’annuncio dall’altoparlante, e aguzzerò gli occhi giù lontano sui binari, dove tutto si confonde in una leggera nebbiolina, tra i segnali rossi e le linee elettriche, tra vagoni in sosta su binari morti e motrici di servizio nello scalo merci, a spingere stancamente brevi convogli.
Adesso provo a spingere ancora più in là il mio sguardo. Oltre il visibile, verso il luogo dal quale tu arrivi. Mi viene voglia di mettermi a seguire a ritroso il tuo percorso, sapessi che è possibile, lo farei. Ma no, devo aver pazienza. Mi perderei, ti perderei. Per me questo binario si perde nel nulla, troppe fermate, troppi paesi sulla tua strada, e poi, come trovarti? So che tu mi conosci, mi hai telefonato all’improvviso, pensavo a uno scherzo, a un sondaggio, a qualche trovata cretina di qualche amico. Ma eri tu. Non sapevo di essere sulla tua rubrica, non sapevo nemmeno che tu avessi una rubrica.
Cerco di ricordare la tua voce, ma non ci riesco, ma tu guarda un po’ se uno deve pensare anche a ricordarsi una voce…
I miei amici sanno del nostro incontro, mi dicono anche loro “Abbi pazienza” , ma intanto il mese è passato, e al sabato notte non riesco a dormire.
Domani. Domani. Basta far passare questa notte e sarà domani, il giorno che verrai.
Ci troviamo la mattina, nel giardino davanti la stazione. Ridiamo, scherziamo, ma la mia testa è sui binari, i miei occhi sono sui binari, il mio cuore è sui binari, e devo ancora aspettare.
Pranziamo allegri, anche io cerco di scherzare, ma sento che è solo la mia voce che scherza, io non ce la faccio, non ho testa, non posso. Non riesco ad andare oltre un commento sul vino che bevo, sulle patate arrosto, che sono un po’ malconce. Quello che conta è che tu verrai, tra poco, tra poco.
Sento che in stazione continuano ad annunciare treni in arrivo e treni in partenza, dieci minuti, poi chiameranno il mio treno, il tuo treno, il nostro treno.
Salgo ai binari, gli amici non mi accompagnano. E’ un momento per me, solo per me, saranno ad aspettarmi, ad aspettarci, ad abbracciarci dopo, quando sarai venuto.
Ecco, lo annunciano, stai arrivando. Mi sporgo per vedere il tuo treno spuntare, per veder fare quella leggera curva che lo indirizzerà da me, qui davanti. Presto! Presto! Ecco che arriva! Ecco che viene! Stridono i freni, dove sei, dove sei!!!! Il treno è fermo davanti a me, i passeggeri scendono, ma tu, tu, dove sei? Non ti conosco, non ti ho mai visto, eppure sono qui ad aspettarti, e cerco di vedere tra la gente che scende, tra la gente che passa, tra la gente che esce, ma non ti vedo, non c’e’ quasi più nessuno, non é possibile, hai promesso, hai promesso.
Improvvisa una voce, dietro di me, il mio nome detto con calma, mi volto, sei tu, sei tu? Certo, chi potrebbe essere! Ti abbraccio, mi abbracci, affondo il viso nella tua spalla, mi stringo a te. Sei arrivato, tu mantieni le promesse.
Gli amici, fuori, stanno già facendo festa per noi. Cantiamo, danziamo, ridiamo. Ci guardiamo negli occhi. Che importa se viene la notte? Con te notte e giorno sono la stessa cosa.

Back to home

Non mi ricordo se l’ho detto, da qualche parte in questo blog. Sono originario dell’alta Garfagnana (chi volesse sapere di più riguardo alle mie origini può guardare qui: http://it.geocities.com/fabiocorti/ ) ma le vicende della vita mi hanno portato presto lontano dai tetti natii. Ogni tanto, è vero sono tornato “a casa”, ma da ragazzi le cose si percepiscono in maniera diversa, anche se i ricordi si ammassano, sedimentano, e prima o poi un alluvione, uno scavo o vattelappesca cosa, riportano a galla ciò che si pensava perduto. Oddio, non è il termine esatto. Cio’ che non si pensava esistesse, forse è piu’ giusto. E ripensi all’estate passata con la nonna e il nonno, nella vecchia casa di Sillicagnana, al buio della cucina, col fuoco nel camino sempre acceso, ripensi alla stanza al piano di sopra, quella che non usava nessuno, una specie di rimessa, dove pero’ c’era un letto, chissa’ per chi, e nei giorni di brutto tempo, dopo pranzo (ah, i temporali estivi!)stavo lì sul letto a riposare, o a guardare furi dalla finestra un panorama magnifico, e la pioggia, e le nuvole nere che si rincorrono, i lampi e i tuoni, ma anche nelle belle mattine di sole i campi di grano, di granturco, e la ferrovia lontana alcuni chilometri, dall’altra parte della valle, lontana, si, ma si sentiva sempre il rumore del treno, quando passava, a volte la “littorina” a volte il treno a vapore, che comunque ha continuato a far servizio fino al 1974. Si vedeva entrare e uscire dalle gallerie, passare sopra i ponti, uno di questi davvero molto alto, fermarsi alla stazione di Poggio, e poi Camporgiano, e via, fino a Piazza al Serchio…. Mi ricordo le strade – strade, chiamiamole così, solo un paio percorribili in macchina, e una di queste che portava fino all’ “Aia dell’ Aiutante”, dove di solito si batteva il grano con una di quelle vecchie trebbiatrici mosse da una cinghia collegata ad un piccolo trattore. Festa. Polvere e festa. La chiesa, dal magnifico soffitto a cassettoni, e la luce filtrata dalle vetrate colorate, e attraverso i vetri s’indovinava il muoversi del ramo di un albero, e il suono dell’organo(allora lo suonava il Gino) allora ancora a mantici, mossi dalle mani pazienti del Rinaldo, calzolaio del paese, e i vespri cantati dagli uomini, nel coro, con quelle voci particolari, che sembrano parlare di tutti coloro che prima di questi hanno cantato in questa chiesa, e il profumo d’incenso, che non spariva mai del tutto, e il posto che occupava il mio nonno, nelle panche, e dove appoggiava il cappello quando si sedeva. E le strade tutte un saliscendi, e le ortiche che nessuno si da’ la briga di togliere, e le corse pesanti dei ragazzi, e le voci delle mamme. Entri in una casa e guardi, nella penombra, la donna di casa che rammenda qualcosa, alla scarsa luce della finestra. Un vecchio, davanti al camino, attizza i ciocchi, e le faville si alzano veloci ed effimere, brillano e si spengono. La pipa in bocca occupa il tempo dell’attesa di niente. Poche parole, essenziali, danno il senso di essere vivi e presenti. Tanti anni dopo sono tornato alla fine di un bell’autunno. Il paese era ancora come lo ricordavo, un po’ più in ordine, le strade sistemate, pulite, le case sempre le stesse, un po’ meno movimento, sono rimaste poche persone, dalle 500 di quando son nato io. Ma qualcosa mi commuove, e non capisco cosa sia, e cammino e mi guardo in giro, c’e’ qualcosa che non riesco a vedere, ma c’e’. Alla fine, ma solo alla fine, capisco. L’odore della legna bruciata nei camini riempie tutto il paese, e mi ricorda che sono tornato a casa.

Messa a fuoco

Dal 1957 al 1966 la mia famiglia ha abitato a Viareggio. Una pacchia, per un ragazzo come me (ragazzo, meglio dire bambino, va’, nel 57 avevo 4 anni e nel 66 ne avevo 13) . Il mare, la pineta, il porto. Proprio questo era uno dei miei posti preferiti. Mi piaceva andare a vedere le barche – sia i pescherecci che le barche da diporto, soprattutto quelle a vela…. Quando il tempo era un po’ così così, e tirava vento, e il cielo era coperto e anche le acque del porticciolo erano appena mosse dalla mareggiata che andava a cozzare contro i moli foranei, ascoltavo lo sbattere delle manovre sugli alberi, e sognavo viaggi improbabili. Sul molo lo sguardo si perdeva nell’infinito verde e grigio del mare in burrasca e il gioco consisteva nel non lasciarsi prendere dagli schizzi delle onde. Ma vedevo sempre i grandi spazi e i miei occhi non si concentravano mai su qualcosa, ma andavano sempre irrequieti spaziando fino all’orizzonte, cercando magari di superare quella striscia insesistente eppure tanto chiara per me. E così sono cresciuto nella disattenzione, nel girare gli occhi continuamente alla ricerca di cose nuove, non essendo mai pago di quel che avevo dinanzi. Troppe, troppe cose da vedere, da sognare. Nel 1966 la mia famiglia si è trasferita a Prato. La città è stretta nelle sue mura e io da principio la percorro a piedi, poi in bicicletta. Imparo a conoscerla, ma ancora non a guardarla. Non amo ancora il castello dell’Imperatore, le piazze, le chiese. Mi piace lo strano intrico dei vicoli, così diverso da Viareggio con le sue strade diritte, che si sa come cominciano e come finiscono. E’ autunno e non vedo il colore della pietra, non sento gli odori, i rumori. Ancora troppi stimoli, ancora una città troppo nuova, tutta da vedere, come trovarsi all’improvviso dietro quell’orizzonte che tante volte sul molo di Viareggio ho cercato di valicare. Ma poi, nella vita, talvolta si trova un maestro che ci prende per mano, e ci spiega come stanno le cose, che il tutto non esiste di per sè, ma è fatto di tante piccole cose, da particolari, da singole pietre, da tegole sui tetti, dalle macchie d’umido sui muri, da colori diversi, intonaci scrostati, cortecce d’alberi….. E’ venuta la nebbia, che non avevo quasi mai visto, e mi ha spiegato che per vedere mi devo avvicinare, che le cose si scoprono passo passo, che non si puo’ vedere tutto insieme, nello stesso istante. La nebbia che mi ha mostrato come l’aria ha un suo spessore, e come il vento ha un suo disegno, nel trasportare tra i vicoli gli sbuffi di vapore. Perche’ anche la nebbia non è una massa compatta, ma sono mille fiocchi, che fasciano cornicioni e scale, che bagnano gradini e colonne, la nebbia, che anche sui miei capelli e sui miei abiti lascia il suo ricordo bagnato. Il campanile di San Bartolomeo mi mostra la sua base intonacata, gialla, e il marmo della parte piu’ alta s impasta con la nebbia, e devo cercare con la mente, e immaginarmelo che sale nella nebbia sicuro, con i suoi archi e le sue campane. Oggi posso sapere che esistono solo dal suono, che mi arriva quasi ovattato, coperto. La nebbia non distingue le cose, ma si prende cura di tutto. Le logge delle Case Nuove in Piazza mercatale paiono non aver fine, ma il primo arco si staglia sicuro nel cielo bianco. Dietro di lui una massa scura. Devo avvicinarmi, per vedere gli alberi nei giardini della piazza, mentre della Porta al Mercatale vedo solo i vecchi portali, scuri contro l’alberese delle mura, che sembrano impastate anch’esse di nebbia. Ricordati, non si puo’ vedere e capire tutto insieme, ma solo avvicinandosi e guardando una cosa alla volta, toccando, ascoltando. Prendendo il tempo per godere di ogni particolare, albero, pietra. Capisci che anche tu sei parte del paesaggio quando incontri altre persone, che ti vengono incontro, e le vedi sbucare dal nulla, masse scure che piano si materializzano. E, se guardi dietro, mentre ti superano incrociandoti, spariscono di nuovo. Il tempo si stringe, nella nebbia, ai pochi passi intorno a te. Cinque, dieci, venti, non importa. Non si cammina che un passo alla volta. Per fortuna.