Quello strano non so che.

Bene. credo sia venuto il momento di prendere atto della assoluta meraviglia di questo momento.  Ma perché’? Eh, in effetti non lo so. Sarà qualcosa di alieno, forse, o la nuova influenza aviaria… ma non so se questi possano essere i sintomi. Veramente non so nemmeno se ho sintomi. Il problema è che vorrei parlare di qualcosa ma non so cosa sia, dove sia,e quali effetti abbia. Come nuotare, ma senza essere nell’acqua. Senza sapere cosa mi circonda, e perché sia così impalpabile, così volatile, così sottile, eppure altrettanto certo.

Io non so cosa sia.

Come avere nelle mani (ma ne siamo sicuri? ) un bellissimo pacco, e non sapere come sia giunto a te, chi te lo abbia mandato, e come. Cosa posso fare? Ho anche chiesto, a chi mi faceva notare la stranezza della questione, informazioni piu’ dettagliate, ma non è stato possibile arrivare a niente, proprio come l’ambasciator che, per antica tradizione, non porta pena.

Non sapere una cosa certa a noi stessi è davvero strano. Ma questo è quello che accade. Per fortuna mostra un volto strano, sì, ma benevolo, e sembra invero capace di superare guai di varia natura…per esempio? Beh, questo esempio penso di poterlo fare, ne parlavo oggi con l’ambasciator, quello che ancora non porta pena (oppure la porta, a volte?)…. beh, mi sono trovato con una diagnosi (o se preferite, con una “previsione”) tanto certa quanto sconcertante, tanto semplice quanto misteriosa (no, no, calma, non mi sono innamorato, non sto cercando il modo di tradire la moglie – la mia migliore – è una storia del tutto diversa…) comunque… dicevo che quando ho sentito su di me questa sentenza, ho avuto paura, perché’ mi sono sentito solo. Solo del tutto, come andarsene per il deserto senza scorte, senza acqua, cammello, viveri, e cappello. Ma non è andata così. Dopo un attimo di sconcerto, ho scoperto che ero meno solo che mai, anzi, e in questi giorni di cicloni e tempeste varie, per me, il sole splende.

Lo so, non ho spiegato niente, ma non so cosa farci. Io lascio fare, adesso, come dicevo sopra, nuotando senza acqua intorno, volando senza aria che sostiene le mie ali, ridendo di una barzelletta che nessuno ha raccontato.

Vi sembro strano? Perché no? Io non ci trovo nulla di male.

Dico grazie, e non so chi accetterà il mio ringraziamento, mi farebbe piacere poter fare almeno questo, ma non so se mi è permesso, e anche questa cosa si sistema accanto alle altre mille che non so, adesso. Che penso non saprò mai.

A te, che leggi e scuoti la testa, posso solo augurare un’esperienza come questa… perché si può, eh, non c’è il filo spinato, o da pagare, o alti muri da scavalcare. Non so dirti cosa serve, e non so dirti se a me è servito qualcosa. Di piu’ posso dirti che, come tu sei qui con me, adesso,  anche io adesso sono con te, e spero che tu mi senta, e spero che tu possa, in qualche modo, capirmi, oggi o un giorno che verrà.  Il fatto è che siamo sulla strada, e camminiamo.

 

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BE THROUGH (non è il colore del vetro quello che conta)

…un famoso artigiano viene incaricato di creare una preziosa vetrata per la chiesa piu’ importante della città….e lui si mette al lavoro,  prepara tavole, schizzi, disegni, allegorie, immagina storie, ma quando comincia a mettere il primo vetro non è soddisfatto.

E’ stato fuori e ha visto il sole splendere sulle case e sui prati e il suo calore gli ha allargato il cuore ma la sua vetrata non gli trasmette il sole.Prova allora lui stesso a disegnare il sole sulla vetrata ma ciò’ che si vede da dentro alla chiesa è solo un disco piu’ o meno giallo. Il povero artigiano ha già fatto mille prove diverse, fuori dalla chiesa, in un angolo, ci sono tutti i vetri che ha scartato. Rischia davvero di andare fuori con le spese, e sa che ci dovrà rimettere di tasca, se dovesse succedere. Decide allora di fare le sue prove col vetro dipinto, in modo da poterlo pulire quando il risultato non è quello desiderato. Ridisegna sul vetro il sole giallo, il cielo azzurro, i prati, le case, i bambini, ma non ottiene un risultato migliore. 

Stanco e sfiduciato s mette a pulire il vetro, pensando di riprendere il lavoro il giorno dopo con nuovi colori, nuove idee, nuova fortuna. Sta pulendo il vetro, quando, improvviso, un raggio di sole lo attraversa, ed accende la chiesa di una luce incredibile.  Il povero artigiano, meravigliato, prova a pulire tutto il vetro, e vede che il sole, quello vero, sta entrando dentro, sta scacciando il buio, sta cancellando la tristezza, e ora è tutto chiaro, tutto vero. Il sole, padrone anche delle finestre, dei vetri, il sole, che entra e ridisegna tutto, rimodella tutto….

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Bah, piano piano uscirà anche questo post…. che in effetti da tanto ci penso, e da tanto si parla di questo col Coach (che…. non ripeto), ma….. ma….. ieri sera prima lezione dell’anno, e sembra davvero che voglia dire “anno nuovo, vita nuova” …..o chissà….

C’è una foto, nel post immediatamente prima di questo, che ha acceso la discussione. Come al solito il percorso è un po’ complicato, si parte dal considerare un’immagine che è reale, e la si fa diventare metafora di qualcosa che “forse”  è nascosta dietro…..

La foto è quella alla fine dell’articolo precedente, quella dell’abside della Pieve di Romena, tre trifore disposte a semicerchio, e la luce che le attraversa….   ….e quello che mi venne in mente, allora, è che poteva essere una immagine del coro, della scuola… tre sezioni, un semicerchio, e la luce che filtra, messaggio di ciò che è fuori, di ciò che è il sole, di ciò  che è il messaggio che cerchiamo di trasmettere….

….La finestra, alla fine, non conta. Non conta nemmeno ciò che tu vorresti mostrare attraverso di essa. Conta solo la Verità, quella che sta fuori e ti chiede di lasciarla passare, perché tutti la vedano.


Come scende la notte

Era tanto che non facevo un po’ di foto a Firenze… anzi, era un po’ che non facevo foto. E capitata l’occasione ghiottissima del Coach impegnato in un concerto al Circolo Canottieri, invitato dal grande Nehemiah H. Brown… E eccoci, quindi, un piccolo gruppetto di irriducibili, alla volta di Firenze. Accidenti, era tanto davvero che non venivo a Firenze. E’ dolcissima nella luce della sera, mentre il sole gioca tra i ponti, sotto le arcate, e inventa colori e forme strane, e sembra che siano fatte solo per noi.

Sul marciapiede opposto al nostro una coppia di sposi novelli sta inseguendo un fotografo frettoloso, in questa luce strana che cancella le ombre, che rende tutto più sereno, tranquillo, anche se poi la notte verrà, comunque, e anche per questi sposi inizierà il mistero di una vita da passare insieme, e molte notti e altrettanti giorni che verranno, e ancora notti.  Non so perchè, ma questa immagine, in questa sera che dovrebbe essere dedicata all’allegria mi mette dentro un velo di tristezza. Comincio a guardale la città che si prepara ad accogliere la notte, e cerco risposte che non trovo. Il flusso dei turisti e dei semplici cittadini che sono fuori in questa bella serata a passeggio sul lungarno sembra voler suggerire che tutti hanno qualcuno accanto, e vedi gente che cammina mano nella mano, o abbracciati, o che camminano e chiacchierano animatamente, oppure semplicemente seduti sulla spalletta del fiume ad ascoltare e guardare la città in questa ora così speciale.

Sul Ponte Vecchio, in mezzo alla gente, un busker si esibisce, raccogliendo applausi e qualche moneta. Non so se questo basterà a risolvere il problema di questo giorno, se potrà bastare ad un magro pasto e ad un alloggio. In questo momento la magia della musica è davvero forte, e rimango ad ascoltare un po’ , a guardare gli altri, lì sul ponte, ad immaginare la loro vita.

Qualche turista che viene da lontano, e si riempie gli occhi di poesia e di questa luce che si fa sempre piu’ strana, tanti ragazzi, e i loro occhi pieni di sogni, perchè da giovani è obbligatorio sognare. Per la realtà ci sarà tempo piu’ tardi.

Cerco di fare ancora delle foto, la luce è bellissima, ma adesso è davvero poca.  I lungarni vengono lentamente avvolti dalla notte, prima che si accendano le luci dei lampioni.

In questa bellezza il pensiero ritorna alle cose che non si vedono, a cio’ che la notte nasconde. Per quanto ci possiamo illudere,  qualcuno, che nemmeno vedremo, passerà la notte da solo. Forse avrà fame, paura, forse starà male. Cosa ne sappiamo noi della vita degli altri? Guardiamo quello che la luce ci mostra, e pensiamo che il buio assorba tutto il resto, e cancelli davvero ogni presenza, ogni dettaglio.

Essere soli è la peggior maledizione che possa capitare. Nessuno che ti stia ad ascoltare, nessuno che ti parli, nessuno che ti aiuti nelle tue necessità, nessuno che cerchi aiuto da te.  In fondo essere soli è come essere inutili. Da rottamare.

Per fortuna c’è un concerto con le sue note allegre. Cantiamo, battiamo le mani, e dimentico in breve questi pensieri scuri. Si torna a casa, alla fine, chiacchiere in macchina, poi la portiera si apre, e devi scendere.  Buonanotte,è un saluto, ma vorresti che fosse anche un augurio. Una buonanotte. Pace. Sicurezza.

E’ tardi, in casa tutti dormono già,  un’occhiata al mondo di Facebook, giusto per vedere chi c’e’. Incredibile Facebook!

In effetti, un amico è ancora alzato, vedo la lucina verde accanto al suo nome, lo saluto, mi risponde subito.

“eh -mi dice – ti vorrei dedicare una canzone!”

“ma dai, davvero?”

“Si si, spero che ti piaccia. La cerco e te la linko, ok?”

“Si grazie!”

“accidenti, non riesco a trovarla su youtube… non so se la conosci, è  “He ain’t heavy, he’s my brother”….”

“Mai sentita – dico – cerco il testo.

Eccolo qui:


The road is long
With many a winding turn
That leads us to who knows where
Who knows where
But I’m strong
Strong enough to carry him
He ain’t heavy, he’s my brother

So on we go

His welfare is of my concern
No burden is he to bear
We’ll get there

For I know
He would not encumber me
He ain’t heavy, he’s my brother

If I’m laden at all
I’m laden with sadness
That everyone’s heart
Isn’t filled with the gladness
Of love for one another

It’s a long, long road
From which there is no return
While we’re on the way to there
Why not share

And the load
Doesn’t weigh me down at all
He ain’t heavy he’s my brother ”

Il mio inglese è scarso, ma arrivo a capire subito l’essenziale.

“Su questa strada siamo insieme a camminare, nonostante il vento giri sempre qua e la, non ti lascio solo, ti porto, ti sostengo, insieme andiamo. Non sei un peso per me, sei mio fratello…….” …il senso….

E allora penso a quanto sia stato delicato questo pensiero, nel cuore di una notte che poteva essere greve, e invece si è illuminata di botto, per l’affetto di un amico, di un fratello.  E per questo, ecco, davvero no nci sono parole. Verrebbe da dire… ma in fondo ce lo siamo detto tante volte,  ma così è davvero “peso”, ed è detto in parole chiare, comprensibili.

Prova anche tu, insieme a me, a sentirti raggiunto da queste parole. “Non mi pesa starti accanto, sei mio fratello”. prova a rompere il velo della notte, accendi tutte le luci della tua vita. Non sei da solo. Non siamo da soli.

Il predicatore

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Un predicatore andava di paese in paese, cercando d consolare la gente, di portare speranza, di riportare il sorriso negli uomini ormai ingrigiti dalla noia del vivere. Ma non aveva successo. Aveva il cuore traboccante di parole di conforto, mille immagini belle, dentro di se’, per meravigliare i suoi ascoltatori, ma quando cercava di spiegarle nessuno lo capiva.

Era un predicatore inutile. Parole nel vento, discorsi che rimanevano vuoti, e vuoto rimaneva il cuore del predicatore, amaro, compreso della propria inettitudine, della assoluta incapacità, della propria inadeguatezza. Ma perché’, si domandava, perché’? Non è vero quello che io mi sento dentro? A cosa serve avere una ricchezza immensa, se non ne puoi distribuire a piene mani? Cosa doveva fare? Chi poteva aiutarlo?

Camminando per la città si trovò d’improvviso davanti ad un portone, con sopra un’insegna: “Scuola di Predicazione”.  A cosa mi serve, disse, a cosa mi serve. Io so già tutto quello che mi serve sapere. Forse non è questo il mio tempo. Il mondo non mi capisce. Forse questa terra, che nemmeno capisce bene le mie parole, non è il luogo giusto per la mia opera.

Se ne andò, il predicatore, più triste che mai.  Gli faceva compagnia lo splendore della verità che portava dentro di se’, e che era per lui consolazione, ma anche tristezza. Come era possibile, come era possibile. Lo splendore della verità che sentiva in se’ non raggiungeva chi lo ascoltava, era come se ci fosse un muro di incomprensione davanti a lui, un muro che appariva invalicabile, e indistruttibile. Se talvolta cercava di ascoltare se’ stesso parlare, tutto appariva chiaro, bellissimo, egli stesso si commuoveva delle sue stesse parole. Ma nessuno capiva. I destinatari del messaggio erano dunque degli insensibili? Gia’ così freddi, erano?

Camminando, giunse alla riva del fiume, dove un altro uomo stava, come in ascolto del fruscio del vento, seduto vicino all’acqua. Sembrava triste, l’uomo, e il predicatore si impietosì, e decise di avvicinarsi, e parlargli, certo che sarebbe riuscito a riportare il sorriso sulle sue labbra. Lo salutò cortesemente, e stava gia’ per lanciarsi in qualche frase di circostanza quando l’uomo parlo’, improvviso.  Aveva una voce dolce, profonda, eppure lieve, e le parole sembrava di vederle salire nell’aria, e spiegarsi, mostrandosi.

“Per favore, descrivimi quello che vedi, sono cieco. Parlami del fiume, degli alberi, delle piccole onde, delle rane, e dei tuffi dei pesci. Ti prego, dimmi quello che senti, dimmi quello che vedi. Basta la bellezza del paesaggio, non importa altro. Le canne si piegano al vento? La corrente è lenta e tranquilla? E i bambini, dimmi dei bambini: stanno giocando, e ridono e scherzano? Sono felici? E il sole? Com’è il sole?

Ti prego, dimmi la verità! Avevo la vista, un tempo. Cosa è rimasto da allora?”

La voce dell’uomo si spense, improvvisa, e fu come se fosse tornato inverno. Il predicatore aprì la bocca, la richiuse, tornò ad aprirla, come boccheggiando, come cercando l’aria. Non riusciva a parlare. Avrebbe voluto raccontare all’uomo tutto del fiume, perché anch’egli amava il fiume profondamente, ma non trovava parole, come se un vuoto si fosse gonfiato dentro di lui,improvviso, lasciandolo alla fine inutile, lì sulla riva del fiume.

Con uno sforzo infinito abbracciò l’uomo, lo strinse come a volerne penetrare l’essenza, e disse: “Si, amico, è tutto come lo ricordi, tutto come lo ricordi.”

Col cuore finalmente lieve se ne andò e camminò ancora a lungo per la città, finché si ritrovò di nuovo davanti al portone della Scuola di Predicazione. Ecco, tutto era chiaro, adesso, quello che era stato, quello che doveva fare,  ecco una rotta sicura, un faro, un porto

Bussò con decisione al portone e, quando questo si aprì, non si meravigliò di riconoscere l’uomo del fiume, anzi, immaginava di trovarlo.
Disse solo tre parole: “Insegnami a parlare.”
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Una nota…..
E’ una metafora, evidentemente ma, come ogni metafora, la possiamo specchiare nella realtà. I personaggi immaginari, allora, diventano personaggi reali, e si potrebbe chiedere loro di raccontare stavolta la storia vera….oppure non serve, e basta chiudere gli occhi, per un attimo, e vedere la propria vita in questa storia, e da questa lasciarla filtrare dolcemente, senza timore.
Così possiamo, una volta tanto, accettare di discutere noi stessi come in un gioco di ruolo, perché alla fine, ognuno di noi ha qualcosa da dire, qualcosa da insegnare, qualcosa da imparare. E ultimo, ma non meno importante, qualcuno da ringraziare.

La Fucina

Un Pezzo di Ferro

Si sentiva forte. Forte come non mai. Massiccio, indistruttibile. Era fatto del miglior acciaio, nato nella fiamma dei forni, resistente a tutto….ma cosa faceva adesso? Cos’era quella ruggine che lo copriva come un velo, cos’era quella sprecisione nel taglio delle sue forme? Era un ritaglio, solo un ritaglio, uno scarto, buono solo per far da zavorra, o esser buttato in qualche fornace, ed essere fuso di nuovo.

Le giornate passano, e i mesi, il sole, la pioggia, il gelo e il caldo; a volte lo spostano un poco, per far posto, come fosse davvero un ingombro, e la ruggine già colorava la terra intorno a lui di un rosso che sapeva di tramonto…..


Il Fabbro

Nel deposito di rottami venne un giorno il  vecchio Fabbro. Aveva visto giovani lavorare il ferro, ma avevano troppa fretta, e la fretta  non è un buon  artigiano. Non se vuoi fabbricare una lama.

Aveva perso la sua bottega, il Fabbro, in un disastroso abbandono durato anni, quando sembrava che niente avesse più senso, quando non si trovava di che alimentare la fucina, quando nessuno voleva più sentir parlare di sudore, di fatica, di umiltà. Decise allora di sistemarsi nel deposito di rottami, costruì una tettoia, in qualche modo, e la fucina, e il mantice, e fu pronto.

Serviva una incudine. Pochi vogliono essere “incudine”, uno che sta lì, con la schiena piegata, a prendere martellate….Ma se non si trova una incudine, forse si può trovare un pezzo di ferro, tra i rottami, rottame anche lui, che abbia la pazienza di stare sotto al martello e sotto alla lama….

Un Pezzo di ferro

…vide il vecchio Fabbro avvicinarsi, guardarlo, pesarlo con lo sguardo, stimare le sue forme, e poi pensare a una base che  lo sorreggesse, quel grande ceppo che già era sotto la tettoia della fucina, accanto alla fiamma ardente. Non capì nemmeno cosa stesse succedendo, come mai venisse spostato dal mucchio del ferro inutile, del ferro da zavorra, del metallo da fornace, perché venisse inchiodato al grosso ceppo, fermato definitivamente, fissato. Vide il martello alzarsi, e ricadere, e lo accolse sulle sue spalle, e quando sentì la forza del colpo disse “Accidenti, questo sa davvero usare il martello” , e produsse un suono melodioso, mentre un po’ di ruggine cadeva a terra, e riappariva la sua antica lucentezza.

Il Fabbro

accese la fucina, la alimentò, guardò il carbone sbiancare nelle fiamme. Provò il mantice, e la fiamma brillò ancora di più, e mille faville festose si alzarono verso il cielo, e il fabbro sorrise, sentendo la forza del fuoco davanti a sé. Prese allora una barra di metallo prezioso, di acciaio del migliore delle migliori ferriere del paese, e la mise sulle braci ardenti, finché non fu incandescente, poi l’appoggiò alla sua nuova incudine, alzò il suo martello, e cominciò a battere. Scaldava, batteva, e la barra prendeva forma, e anche l’incudine cominciava a capire, e aiutava il lavoro del Fabbro, ed era come se sapesse come “tenere” il colpo, ora più forte, ora più delicata, e intanto la ruggine cadeva, e l’incudine stessa ad ogni colpo rimaneva segnata, tanto che avresti potuto dire la storia di ogni colpo, la metamorfosi quotidiana, e il dolore dell’incudine (e quale doveva essere, allora, il dolore della lama che veniva forgiata?).

E il lavoro andò avanti. L’incudine, in verità, si meravigliava del lavoro del Fabbro. Si era abituata anche a sentire il dolore,  ed era questo che faceva di lei una incudine adatta alla fabbricazione di una Lama. Perché, alla fine, aveva imparato a capire il lavoro del Fabbro, ad ascoltare il crepitare delle fiamme, lo strisciare del martello, il battere, si era abituato a non vedersi più coperta di ruggine, a vedersi tutta segnata da piccoli incavi, come mille onde nel mare. Come onde scintillanti sotto il sole.

….

Un giorno, il Fabbro terminò il suo lavoro. Oddio, non sarebbe giusto dire in questo modo. Il lavoro del Fabbro non finisce mai, di continuo la lama deve essere aggiustata, corretta, deve ripassare dalla fucina, e sotto al martello e sull’incudine….e la cosa è buffa, ma l’incudine, così come ha conosciuto il martello e il Fabbro, adesso ha imparato a conoscere la Lama, e si preoccupa per lei, e chiede sempre al Fabbro di averne cura, di proteggerla, ma anche di farla combattere, di provarla. Ha imparato ad amare la Lama. Il Fabbro guarda, sorride, e spinge sul mantice.  E’ un lavoro paziente, il suo, un lavoro paziente…

————————————————————————————————————————————————–“Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto. (Lettera agli Ebrei,  4,12-13)

“Teneva nella sua destra sette stelle e dalla bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio, e il suo volto era come il sole quando splende in tutta la sua forza.”  (Apocalisse, 1,16)