IO RESPIRO (un articolo di Marta CORTI )

Dalla pagina Facebook di Marta CORTI, copiato tal quale, salvo l’aggiunta delle foto, con autorizzazione dell’Autrice.
https://www.facebook.com/notes/10205681817113814/?pnref=story


Io RESPIRO
7 gennaio 2015 alle ore 3.42
Avevo iniziato a scrivere questa “cosa” quasi un anno fa, e per me era finita lì. In verità assomigliava più a un brainstorming, però mi aveva lasciato soddisfatta perché avevo messo nero su bianco dei pensieri che avevano avuto il loro percorso prima di arrivare a maturazione. Sono anche dell’idea che ad un certo punto sia necessario mettere un punto, e credo che ogni scrittore cambierebbe frasi, parole, interi capitoli della sua opera se ne avesse la possibilità, il che equivarrebbe a non concluderla mai. Invece a me piacciono le cose che hanno un inizio e una fine, anche se a poi a riguardarle a distanza di tempo ti viene da ridere. Questa volta però sono stata spronata a continuare a lavorarci. Mi sono state fatte osservazioni, e domande. Dopo un bel po’ di tempo ci ho rimesso mano. Ancora domande, riflessioni. Eh, ora basta però… Non ho voglia di ri-rimetterci mano. Non ho voglia. Come quando dico che “non ho voglia” di cantare. Tutte scuse. Eccomi qui, dopo un anno.
E’ il mio modo per dire: “Ciao, mi chiamo Marta e ho trentatré anni freschi, come gli anni di Cristo e come la parola che ti fa dire il dottore per sentire i bronchi.” E voglio dire GRAZIE a un bel po’ di persone.


Cantare è solo uno dei modi per esprimersi. Perché ostinatamente continuo a sbatterci la testa, volere sempre di più e starci pure male? Perché mi emoziona sentire la storia di altri, anzi le storie, dalla loro voce. Potrei fare altro nella vita? In effetti sì, e addio problemi. Ok, domanda inutile, sennò non ero qui. Ricominciamo. Cantare necessita di calma. Chiede un respiro profondo. Chiede che questo respiro parta dal basso e non trovi intoppi lungo il percorso, che non venga frenato da niente… La gola che si chiude, il petto come un macigno, il volto rigido, le labbra serrate. Per studiare canto si parte dal respiro, sembra e diventa una tappa scontata. Cantare è parole e note. Veicoli per dire qualcosa. Non bastano. Conta il modo. Nella matassa di trovare questo “modo giusto”, sono tornata alla base: il respiro. Un respiro profondo mi connette con tutto il mio corpo, ecco perché mi fa sentire come nuda. Eccoci, non voglio sentirmi nuda! Eppure ascolto musica che mi commuove, che mi smuove, che mi emoziona. Che mi fa sentire più vera del vero. Perché non riesco a – anzi,non voglio – fare lo stesso con la mia musica, la mia voce? E’ questione di umiltà, coraggio, responsabilità.
La mia voce è ciò che sono. Si sente l’ansia, si sente la freddezza, si sente l’esaltazione,la presuntuosità. Sono le mie corde vocali che suonano, con la mia faccia, la gola, il petto,la pancia, e quello che sta sotto. Tutto. Tutto di me. In maniera meravigliosamente unica. Quando canto racconto una storia, filtrata dalla mia storia. Ma non sono protagonista, non è “mia”, nemmeno se scrivessi e cantassi la canzone della mia vita, perché diventa dono.

Ho creduto che per cantare servisse la fermezza di una roccia.

oscura limpidezza
Ma cantare è movimento fisico e interiore, che vanno di pari passo. Insomma, di fermo non c’è un bel niente. Qualcuno riesce a coordinare tutti gli elementi che servono a fare un buon suono. Tutto il corpo reagisce come dovrebbe. Ma non è solo una questione fisica. Amo e sono ancorata alla musica per le emozioni che esprime, non per un fatto matematico. Ho ammirato chi è impeccabile ma mi emoziono per uno sguardo che brilla, un tremolio nella voce, anche una nota sprecisa ma con la grinta e l’energia che smuovono un palco intero e tutti i suoi musicisti. Qualcosa di imperfetto. Qualcosa di sporco. Qualcosa di vivo. Ho creduto che cantare bene significasse dissimulare ogni cosa che mi facesse sentire fragile. Da questo mascheramento nella migliore delle ipotesi non esce fuori un bel niente. Nessuna emozione, nessuna energia. E ho cantato benissimo. Ma cantare sta proprio in questa fragilità, che in verità è il contrario: è l’umiltà e la forza di mostrarsi per quello che si è, in tre minuti di musica, comunicando a livello viscerale – quindi vero – e senza la possibilità di rettificare a parole.

Ho voluto la voce e le capacità di altri. Poi ho scoperto che ancora non avevo scoperto chi ero io, i miei suoni, i miei colori. Per arrivare ad un certo risultato tecnico – una voce più potente, più calda, più scura, più pulita… – ho capito che l’esercizio mi aiuta fino ad arrivare al mio istinto. Non ho problemi a farmi sentire arrabbiata. Perché non è che mi faccio sentire così, lo sono. Senza l’istinto ogni sforzo è inutile. Per parlare bisogna solo pensare a ciò che vogliamo dire, non c’è l’intonazione a distrarci, o il respiro, perché vengono da sé.
Per cantare, ho capito che dovevo parlare. Così, sto imparando a parlare.

Ho messo me stessa davanti a tutto. E ho avuto paura. Ma non ho nelle mani il destino del mondo, e non dipende tutto da me. Fare musica è qualcosa di semplice se ci si toglie di mezzo. Siamo uno strumento perfetto, cos’altro posso aggiungere che lo migliori? Niente. C’è solo mio orgoglio, inutile e controproducente, frutto della presunzione umana. Frutto del voler essere accettati, apprezzati, amati. Io Voglio contro Io Sono. Così ho fatto silenzio nel mio cervello. Niente giudizi, pregiudizi, solo la mente aperta e il cuore spalancato. Cosa mi piace degli artisti che amo? Che mi stanno dicendo qualcosa. Che non vogliono sembrare niente, ma semplicemente “sono”.
Quello che ho fatto è stato ascoltare. Zitta per una buona volta, e attenta.

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Un giorno, in crisi di fronte a una canzone che stavo studiando, mi sono concentrata sul modo di respirare. Era un vero e proprio esercizio, niente fatto a caso. Respiri profondi, sospiri. Continuavo a provare, stessa strofa, stesse parole, cercando un suono più vero, più mio. Sembrerò pazza, ma sono scese le lacrime dal niente. Nessuna tristezza, né rabbia. E’ successo così, come semplice azione-reazione.

Bene, ognuno ha la sua strada per arrivare ad un certo risultato. Ogni suono è migliorabile e la tecnica conta, come conta in tutte le arti, anzi, in ogni modo per comunicare. Ma non serve a niente se tutto lo spazio è ingombrato da noi stessi. Ho capito che quando sono offuscata da mille preoccupazioni a senso unico su di me, su quello che ero ieri e che sarò domani, è necessario “dare aria”, o anche “prendere aria” per vederci meglio da tutta la nebbia che mi creo. Perché quando l’orizzonte è sgombro si vede meglio anche la direzione verso cui si sta andando.
Mi guardo, scopro la verità su chi sono e non c’è più nessuna paura.
Il mio percorso e il mio esercizio è stato – ed è ad oggi – nell’essere “disciplinatamente indisciplinata” (caro coach, me lo segno per tutte le volte in cui me ne dimentico). Un puro fatto di libertà, nel non volermi dimostrare niente e di lasciar passare tutto di me, come aria dai polmoni.
Sono io e sono veicolo, per la musica, per la vita, per qualunque cosa in cui uno creda e che sia più grande dell’Uomo.
Sono io e mi sono familiare. Sono io e sono libera.

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