Si chiamava Giuseppe (non è il suo vero nome, ma va bene uguale) (non so se sia morto – non credo – ma ha deciso già da tempo che il nome al quale risponde è “Joseph’ ” ) ed era mio vicino di casa quando andavo a passare, da bambino, l’estate coi nonni al mio paesello, in Garfagnana. Ci si sedeva all’ombra, la mattina, sui gradini della porta d’ingresso della casa, disabitata allora, che divideva la sua casa dalla casa dove abitavano i miei nonni, e lì si chiacchierava, si leggevano vecchi giornali sui quali lui agiva da filtro censore nei miei confronti, a volte anche modificando il testo degli articoli per renderli adatti alle mie orecchie di bambino.
Suonava l’armonica a bocca, il Giuseppe (il paese dove sono nato è democratico, nel senso che appiccica l’articolo sia ai nomi femminili che a quelli maschili, a differenza di qui dove vivo adesso, dove gli articoli spettano solo ai nomi di donna) e si atteggiava a meteorologo, con in mano il “Sesto Cajo Baccelli”, declamando negli angoli più frequentati previsioni del tempo e consigli per gli agricoltori, arringando i passanti con la sua voce stentorea e trasformando i crocicchi del paese in tanti “Speaker’s Corner” d’occasione.
Viveva di… non so esattamente cosa, se avesse una qualche rendita lo ignoro ma, come succede nei paesi, soprattutto allora (siamo negli anni ’60) era sempre disponibile per qualche lavoretto, che in molti casi era poi trasportare un carico di legna dal bosco fino alla casa di qualche paesano, vuotare pozzi neri, lavorare nei campi o nelle stalle.
Quando non aveva da fare in paese si vedeva partire con lo zaino in spalla verso i paesi vicini – e anche meno vicini – per partecipare alle feste paesane dove, immagino, sperava di raggranellare qualcosa. Ma aveva un sogno nel cassetto, il Giuseppe. Voleva suonare le campane, in tutti i modi voleva suonare le campane (allora si suonavano ancora a mano, salendo su nel campanile fino alla cella campanaria) ma non gli era consentito,
Un giorno, però, prese fuoco un fienile e il Giuseppe corse al campanile a suonare le campane “a martello” per dare l’allarme… nessuno ebbe nulla da dire, anzi tutti si complimentarono per la prontezza e l’efficacia del suo intervento. Passarono alcuni giorni e una capanna prese fuoco. Il Giuseppe fu il primo a dare l’allarme dall’alto del campanile…. e ancora dopo pochi giorni un altro fienile, e un nuovo allarme…..I paesani cominciarono a tenerlo d’occhio e riuscirono così a evitare un altro incendio di un altro fienile, e un nuovo allarme dal campanile….
…..Mi torna in mente questa storia adesso, che vorrei integrare uno dei miei post più amati, “Lasciarsi ferire“, con l’esperienza un po’ più fresca di questo ultimo periodo….
Chattando con una persona venne fuori questo discorso, più o meno:
“Alcuni amici tendono trappole ai tuoi piedi per farti inciampare e cadere, così che questi possano poi rialzarti, e ottenere la tua gratitudine; altri tendono le stesse trappole perché tu possa trovare in te la forza, ed imparare ad alzarti da solo dopo ogni caduta”.
Perché non esiste solo la possibilità di accettare di poter soffrire offrendo agli altri la propria fragilità, l’essere o meno accolti, alla fine, Perché può’ capitare di aver vissuto una vita e aver rifiutato un rapporto diretto con noi stessi, accontentandoci di contemplare la nostra stessa esistenza così come si può’ guardare una montagna lontana, o la linea dell’orizzonte…che alla fine non esiste nemmeno. Che non si potrà raggiungere mai. E allora si preferisce rimanere seduti per non sentire il gemito delle nostre ossa, non correre, per non mostrare a nessuno, nemmeno a noi stessi, quanto sia goffa la nostra corsa, non cantare, che nessuno sappia mai che cosa stai pensando, perché stai piangendo di nascosto, o perché a volte ti senti traboccare di nostalgia, o di felicità.
Alcuni amici ti rendono la libertà. E questo non ha prezzo, se non la gratitudine.