Il predicatore un anno dopo

(la prima parte di questa storia la puoi leggere qui )

 

Ancora non capiva come tutto quello che gli stava capitando fosse possibile. Lui, che pensava che il mondo gli dovesse un tanto, una qualche gratifica, un riconoscimento, un attestato, qualcosa, insomma, che rendesse chiaro a tutti che lui aveva svolto un importante compito in mezzo alla gente. Che aveva sostenuto, accompagnato, consigliato, abbracciato, lui, che si era sentito un po’ babbo e un po’ fratello di tante persone, lui….

Aveva dovuto arrendersi. Avrebbe voluto, si, essere importante per molti, e probabilmente c’era dell’amore sincero nel suo cuore, della compassione (di tutt’e due i tipi, intendiamoci: sia quella buona che vuol dire “patire insieme”, farsi prossimo, insomma, sia del tipo diciamo pure un po’ più dialettale…quella di quando si dice “mi fa compassione”, e con questo ci si dichiara estranei, alla fine, della vita degli altri. In una semplice parola: superiori).

Quando aveva capito, alla fine, che le sue erano solo parole vuote, e si era rivolto alla “scuola di predicazione”, quando alla fine si era arreso, aveva smesso di lottare, e aveva chiesto, lui, aiuto, era iniziato un periodo della sua vita davvero incredibile.

In effetti, era rimasto molto meravigliato. Immaginava che il suo studio sarebbe stato in massima parte fatto di ripetizioni di concetti, creazioni di situazioni, battute ad effetto sperimentate nella Storia della Predicazione, ma le sue lezioni apparvero subito molto, molto diverse da quello che si sarebbe aspettato. Avrebbe forse studiato a memoria famose prediche, sermoni, omelie, discorsi tenuti da famosi personaggi di tutta la storia? Quando avrebbe cominciato a ripetere parola per parola le parole eterne?

In effetti, le cose non andarono così. Dopo essersi sistemato nella sua stanza, venne da lui l’uomo del fiume, il cieco, colui che gli aveva alla fine aperto la porta della Scuola di predicazione.

“Bene” disse l’uomo, “è tempo di cominciare, devi fare molto lavoro”.

“Che cosa devo fare, Maestro?”

“Devi tornare sul fiume, chiudere gli occhi e guardare così le cose che ti circondano”

“Maestro, ma come! Devo chiudere gli occhi e poi guardare… non capisco!”

Amico mio, devi imparare ad ascoltare. Devi imparare ad ascoltare. Anzi, devi trovare il fiume tenendo gli occhi chiusi, uscirai da qui con gli occhi chiusi, non bendati, ma come i miei, che sono chiusi. Pensi che io sia davvero cieco? Ti sbagli!

Coraggio. Oggi ti accompagno io verso il fiume. Il vento ci indica la direzione, non possiamo sbagliare.”

E così, per molti giorni, e settimane, e mesi, ando’ sulla riva del fiume, da solo.  Dapprima stette come un eremita, seduto immobile, senza capire dove si trovasse, con la luce del sole che premeva, lo sentiva, sulle sue palpebre serrate, e poi piano piano, imparò a dividere i suoni della città da quelli della campagna, imparò a conoscere il vento, e com’era diverso se soffiava attraverso le canne, oppure sull’ erba, o sull’acqua!

Imparò a sentire il debole vibrare dei fili d’erba, a riconoscere l’altezza dell’erba dal suono del vento, immagino’, vide…..l’erba piegarsi, allinearsi, chinarsi fin quasi a terra, capì il vento che scivolava su ogni filo d’erba, e intorno alle canne, e come queste facessero un bel rumore toccandosi tra loro, sempre lasciando spazio al vento…. e comprese le piccole onde sul fiume, e il debole sciacquare contro la riva, e i tuffi dei pesci. Si riempì il cuore di gioa a sentire sulla riva opposta del fiume i giochi dei bambini, i richiami delle mamme, e le voci delicate degli innamorati, e il loro passeggiare tranquillo.

E ripensò anche alla sua vita, a come era successo che si fosse imbarcato in questa incredibile avventura, a come la verità sia, alla fine, quella che aiuta a vivere, la verità qualunque sia, l’accettare se stessi così come si è, accettare la gioia, quando viene, e anche il dolore, perché non si può scansare, evitare.  Ripensò a quanto ogni momento di scoraggiamento era servito a renderlo più forte, a come anche il vento era passato su di lui, allo scompigliarsi dei suoi capelli, e capì che, alla fine, questo era vivere, accettare la presenza del vento, imparare a piegarsi, imparare a ringraziare, risuonare, vibrare, muoversi, come l’erba, come le canne, come l’acqua del fiume.

Capì, allora, che nessuno sarebbe stato come lui, e lui come nessuno. Non migliore, non peggiore. Nessuno poteva sostituirlo, e le persone che avrebbe incontrato sarebbero state sempre speciali per lui, uniche, vere, belle, importanti come ogni filo d’erba, come ogni canna, come ogni piccola onda.

Alla scuola di predicazione incontrò il suo maestro. Lo abbraccio’, e pensò al sole e al vento, e alla pioggia che aveva sentito sulla pelle in tutto quel tempo, e glie ne fece dono. “Ti voglio bene” gli disse.

 

 

 

 

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